IL TERRITORIO

Nella mente dei molti la Lomellina è un alternarsi di risaie, di campi ordinatamente allineati e di canali d’acqua. Non tutti conoscono il cuore verde di questo territorio che, già in epoca rinascimentale, era ricoperto da vaste foreste di epoca preistorica, ricche di cacciagione e per questo “luoghi prediletti per gli svaghi dei Signori di Milano“.

Ad uno sguardo frettoloso, la regione appare occupata solo da coltivazioni che sembrano aver sottratto spazio alla vegetazione spontanea. Questo è il frutto del plurisecolare intervento dell’uomo che ha trasformato un territorio costituito da piccoli ma percettibili dossi, occupati da una fitta e variegata vegetazione, in un susseguirsi di terreni coltivabili.

Ad un osservatore più attento non sfugge invece l’eterogeneità della Lomellina che conserva angoli nascosti di grande interesse naturalistico, con formazioni vegetali ed esempi di flora e di fauna che la rendono una delle oasi più ricche e interessanti in Europa.

A tenerne unito l’intero ecosistema l’ecosistema, l’acqua, vero tesoro di quest’area, elemento di collegamento tra risaie, coltivazioni, riserve vegetali e faunistiche.

Questa terra così ricca e variegata ha dato vita alla storia di chi ha fatto del lavoro agricolo la fonte principale della propria sopravvivenza, sviluppando una sapiente simbiosi tra natura e agricoltura, tra sapere e lavoro.

Un esempio unico, un’eredità importante per le generazioni di tutti i tempi che, insieme alla cultura e ai mestieri di questa regione, devono essere preservate e tramandate.

Punto focale della vita in questo territorio, la Cascina, intesa come centro produttivo e luogo da abitare. I contadini, le mondine, gli allevatori di bestiame, i cacciatori, gli animali sono gli abitanti di questo luogo, carico di vita e tradizioni vissute lavorando immersi in questo habitat a volte magico.

Dove in ogni stagione, il tempo e le attività sono decise dalla natura più che dal volere dell’uomo. In un continuo susseguirsi di colori e profumi che cambia e stravolge, di mese in mese, i campi coltivati e la vita dei boschi; in un via vai di uccelli rari che rendono questo territorio uno dei più rari d’Europa dal punto di vista ornitologico.

Il terreno agricolo

La Tenuta San Marzano Mercurina può vantare 189 ettari di terreni agricoli a vocazione risicola, dal 2011 inizia la coltivazione dei terreni della Cascina San Marzano 136 ettari vengono coltivati a risi di alta qualità di diverse varietà. A partire da quest’anno si inizia a coltivare anche i terreni incolti da anni della Cascina Mercurina: 54 ettari con  coltivazione di produzione biologica di orzo, soia e riso. In futuro la Fondazione attraverso la Società Agricola Cascina San Marzano si ripropone il recupero di antichi risi di qualità autoctone.

Le zolle di questi terreni raccontano le storie dei contadini e delle mondine che li hanno coltivati, per passione e necessità, nei tempi passati, quando le principali colture delle cascine di Pieve erano l’erba e il fieno, il granturco, ma, soprattutto il riso.

L’erba e il fieno

L’abbondanza di acqua dei fontanili presenti sul territorio permette ai contadini di mettere in atto una pratica che, attraverso l’allagamento dei prati con acqua corrente nei mesi invernali, consentiva di avere il primo taglio di erba già a febbraio. In questo modo era possibile garantire foraggio fresco ai bovini anche nei primi mesi invernali. Questa tipologia di coltivazione dell’erba definita “marcita” rappresenta una tecnica di coltura dei campi propria della Lomellina. La si può far risalire al 1135, quando nel Milanese arrivano i Monaci di San Bernardo di Clairvaux, il santo che fonderà la famosa abbazia di Chiaravalle. E nella zona di Pieve si ha la più alta concentrazione di “marcite” della Lomellina. Negli anni ’50 un’ampia parte dei terreni della Tenuta erano coltivati a foraggio. L’erba infatti era alla base dell’alimentazione di mucche e manze da stalla, mentre seccata al sole si trasformava in fieno, ottimo per i cavalli e conservato in sili interrati o in muratura.

Questa tipologia di coltivazione dell’erba definita “marcita” rappresenta una tecnica di coltura dei campi propria della Lomellina. La si può far risalire al 1135, quando nel Milanese arrivano i Monaci di San Bernardo di Clairvaux, il santo che fonderà la famosa abbazia di Chiaravalle.

E nella zona di Pieve si ha la più alta concentrazione di “marcite” della Lomellina.

Negli anni ’50 un’ampia parte dei terreni della Tenuta erano coltivati a foraggio. L’erba infatti era alla base dell’alimentazione di mucche e manze da stalla, mentre seccata al sole si trasformava in fieno, ottimo per i cavalli e conservato in sili interrati o in muratura.

Il granturco

Fino alla prima metà del Novecento, il mais, la polenta, è stato l’alimento principale per generazioni e generazioni di Lomellini.

Mischiata anche ad altre farine, serviva per fare il pane e veniva utilizzata anche per nutrire i polli.

Dopo la semina che avveniva a maggio, i campi di granturco venivano zappati, rincalzati e irrigati; la raccolta, manuale, avveniva in ottobre, dopo il riso. Una volta colte, le pannocchie venivano trasportate in ceste sui carretti e ammucchiate sull’aia della cascina. Qui, dopo cena, tutti si riunivano per pulire le pannocchie eliminando le foglie; questi erano i momenti in cui gli anziani raccontavano storie e proverbi che sono giunti sino ai giorni nostri.

Il riso

In Lombardia, la coltura del riso si afferma nella seconda metà del 400, introdotta da Galeazzo Maria Sforza duca di Milano. Fu favorita dalle estese superfici acquitrinose e dalle rogge presenti sul territorio e, soprattutto, dalla creazione di una fitta rete di canali.

Anche se in alcuni periodi la risicoltura venne osteggiata perché ritenuta la principale causa di diffusione della malaria, tra il ‘700 e l’800 la superficie coltivata a riso è comunque aumentata sino a diventare predominante nell’area della Lomellina. Nel tempo si è passati da una risaia stabile (campi permanentemente inondati) a una risaia avvicendata che prevedeva la rotazione di altre colture sullo stesso campo.

Solamente dal 1912 si è cominciato a praticare la tecnica del trapianto.

Le fasi di coltura del riso prevedevano la lavorazione del terreno nel mese di marzo. Il campo veniva recintato da piccoli argini e allagato; ad aprile si procedeva con la semina “a spaglio”, ovvero spargendo a mano i semi contenuti in una cesta, mentre si avanzava a piedi nudi nell’acqua. Successivamente il vivaio veniva passato con l’erpice che spingeva i semi sotto il fango e ne facilitava la germinazione. Con il nascere delle prime piantine poteva iniziare l’operazione di trapianto: le piantine erano strappate dal vivaio, raccolte in mazzetti di circa 100 piantine e “messe a dimora”, ovvero ripiantate nei campi che erano stati già utilizzati per la coltivazione di fieno o granturco in mazzetti più piccoli e ad una distanza di 20-25 cm.

Il trapianto veniva effettuato dalle Mondine, donne locali o forestiere, che procedevano allineate, andando a ritroso e sempre a schiena piegata. Per compiere bene questo lavoro era necessario che le Mondine armonizzassero i propri gesti ognuna con quelli delle compagne a lato, per evitare che rimanessero parti del campo scoperte. Determinante era il ritmo imposto dalla caposquadra, solitamente un’anziana, che spesso si piazzava lungo i solchi, avendo così meno lavoro da svolgere e procedendo più velocemente.

Alle Mondine era affidato anche il compito di estirpare dalle risaie le altre erbe che potevano condizionare lo sviluppo delle piantine di riso. Le Mondine sono state un vero e proprio fenomeno sociale, protagoniste di opere letterarie, cinematografiche e oggetto di studi sul lavoro femminile.

Arrivavano in treno dai paesi vicini, dall’Emilia Romagna e dal Veneto; i cavallanti le andavano a prendere alla stazione per portarle in cascina dove venivano alloggiate in grandi camerate con servizi in comune. Indipendenti, per qualcuno sfrontate, indossavano pantaloni corti o gonna tirata sù, calze di cotone fasciavano le cosce lasciando libere le caviglie e i piedi; le braccia erano coperte da tubolari di tela con elastico in modo da proteggerle dal sole e dalle zanzare che infestavano le risaie. Il capo veniva coperto da un foulard o da un cappello di paglia a tesa larga.

Lavoravano dalla mattina alla sera, con una pausa per un pasto frugale e un po’ di riposo all’ombra dei pioppi; a fine giornata, sporche di fango e stanche morte, tornavano in cascina intonando quei canti ancora vivi nella tradizione popolare lomellinese, pronte a prepararsi per la serata che era forse il momento più bello e più atteso della giornata.

A fine stagione (oltre 40 giorni), ricevuta la paga in denaro e in natura (un chilo di riso al giorno), le Mondine forestiere ritornavano nei loro paesi di origine, tra i baci e gli abbracci dei cavallanti che le aiutavano a salire sul treno e a caricare i pesanti sacchi di riso, frutto del loro faticoso lavoro.

Negli anni ’50 le varietà di riso più coltivate in Lomellina erano l’Originario Chinese, il Bersani, il Maratelli, l’Arborio, il Vialone e il Razza 77. La stessa area è oggi la patria del Carnaroli. Le risaie della Tenuta San Marzano Mercurina producono ogni anno  quintali di riso di alta qualità come il Vialone Nano, il Carnaroli e il Baldo.